Cosa dice la nuova disciplina dell’accesso alla liberazione condizionale per i condannati all’ergastolo? Lo approfondiamo qui nel nostro articolo in base alle novità introdotte dal Senato.
Il nuovo art. 2 del DL 162/2022
L’art. 2 interviene sulla disciplina in materia di liberazione condizionale (art. 2, comma 2, D.L. 152/1991) con riguardo alle condizioni di accesso all’istituto da parte dei condannati all’ergastolo per i c.d. reati ostativi, non collaboranti, di cui al comma 1 dell’art. 4-bis OP.
In particolare si prevede l’innalzamento della durata del periodo di pena da espiare (almeno 30 anni di pena, quando vi è stata condanna all’ergastolo, in luogo dei precedenti 26) per l’accesso alla liberazione condizionale del detenuto per reati ostativi non collaborante, nonché l’allungamento della durata della libertà vigilata (10 anni, anziché 5) in caso di condanna all’ergastolo.
Sono state apportate modifiche alla disciplina dell’effetto estintivo della liberazione condizionale e delle prescrizioni di libertà vigilata con riguardo ai medesimi soggetti. In particolare, l’art. 2 DL 162/2022 interviene sul DL 152/1991 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa) per modificarne l’art. 2, in base al quale la disciplina restrittiva per l’accesso ai benefici penitenziari, prevista all’art. 4-bis OP, si estende anche al regime della liberazione condizionale.
Come è noto, in base a quanto previsto nell’art. 176 cp, il condannato a pena detentiva che, durante il tempo di esecuzione della pena, abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento, può essere ammesso alla liberazione condizionale, se ha scontato almeno trenta mesi e comunque almeno metà della pena inflittagli, qualora il rimanente della pena non superi i cinque anni. Se si tratta di recidivo deve avere scontato almeno quattro anni di pena e non meno di tre quarti della pena inflittagli.
L’art. 176 c.p. prevede che il condannato all’ergastolo possa essere ammesso alla liberazione condizionale quando abbia scontato almeno 26 anni di pena. In ogni caso la concessione della liberazione condizionale è subordinata all’adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato salvo che il condannato dimostri di trovarsi nell’impossibilità di adempierle.
La disciplina restrittiva per l’accesso ai benefici penitenziari, prevista all’art. 4-bis OP, si estende, per effetto dell’art. 2 del d.l. n. 152 del 1991, anche al regime della liberazione condizionale. Infatti il comma 1 dell’art. 2 DL 162/2022 afferma che i condannati per delitti indicati nel citato art. 4-bis OP possono essere ammessi alla liberazione condizionale solo se ricorrono i presupposti che lo stesso articolo prevede, a seconda delle fattispecie delittuose, per la concessione degli altri benefici penitenziari.
Prima dell’entrata in vigore del DL 162/2022, la richiesta di accedere alla liberazione condizionale, se presentata da condannati per i delitti compresi nel comma 1 dell’art. 4-bis OP, poteva essere valutata nel merito solo laddove essi avessero collaborato con la giustizia, oppure nei casi di accertata impossibilità o inesigibilità della collaborazione medesima.
La modifica della lett. a) dell’art. 2 del D.L. 13 maggio 1991, n. 152
Rispetto al quadro normativo previgente, l’art. 2, lett. a), del DL 162/2022 interviene sul comma 1 del citato art. 2 DL 152/1991 per ribadire che l’accesso alla liberazione condizionale è subordinato al ricorrere delle condizioni previste dall’art. 4-bis OP e che si applicano le norme procedurali per la concessione dei benefici contenute in tale articolo. La modifica ha carattere di coordinamento: i presupposti e la procedura per l’applicazione dell’istituto della liberazione condizionale sono dunque quelli dettati dall’art. 4-bis OP.
Con l’art. 2, lett. b), DL 162/2022 sono invece apportate diverse modifiche alla disciplina in materia di liberazione condizionale (comma 2 dell’art. 2 del D.L. n. 152 del 1991) quanto alle condizioni di accesso all’istituto per i condannati all’ergastolo per i c.d. reati ostativi, non collaboranti, di cui al comma 1 dell’articolo 4-bis OP.
Per i predetti soggetti:
• la richiesta della liberazione condizionale potrà essere presentata dopo che abbiano scontato 30 anni di pena (per i condannati all’ergastolo per un reato non ostativo, e per i collaboranti, rimane il requisito dei 26 anni);
• occorrono 10 anni dalla data del provvedimento di liberazione condizionale per estinguere la pena dell’ergastolo e revocare le misure di sicurezza personali ordinate dal giudice (per i condannati all’ergastolo per un reato non ostativo, e per i collaboranti, occorrono 5 anni);
• la libertà vigilata – sempre disposta per i condannati ammessi alla liberazione condizionale – è accompagnata al divieto di incontrare o mantenere comunque contatti con:
o i soggetti condannati per i gravi reati di cui all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, c.p.p. (vedi articolo I reati ostativi. Le modifiche dell’art. 4 bis O.P.) o i soggetti sottoposti a misura di prevenzione di cui alle lettere a), b), d), e), f) e g) dell’art. 4 d.lgs. n. 159 del 2011 (c.d. Codice delle leggi antimafia).
La giurisprudenza costituzionale sull’accesso alla liberazione condizionale per detenuti “non collaboranti”
Nell’ordinanza n. 97 del 2021 la Corte ha affrontato la questione del c.d. ergastolo ostativo, ossia della preclusione all’accesso al beneficio della liberazione condizionale per il condannato all’ergastolo per delitti di contesto mafioso che non collabori utilmente con la giustizia.
La Corte era chiamata a giudicare della legittimità della disciplina contenuta negli artt. 4-bis, comma 1, e 58-ter OP, nonché dell’art. 2 del D.L. n. 152 del 1991, per effetto del quale il regime restrittivo per l’accesso ai benefici penitenziari si estende anche alla liberazione condizionale. In particolare, le norme portate all’esame della Consulta stabiliscono che i condannati all’ergastolo per reati di contesto mafioso, se non collaborano utilmente con la giustizia non possono essere ammessi al beneficio della cd. liberazione condizionale, che consiste in un periodo di libertà vigilata, a conclusione del quale, solo in caso di comportamento corretto, consegue l’estinzione della pena e la definitiva restituzione alla libertà. Possono invece accedere a tale beneficio, dopo aver scontato almeno 26 anni di carcere, tutti gli altri condannati alla pena perpetua, compresi quelli per delitti connessi all’attività di associazioni mafiose, i quali abbiano collaborato utilmente con la giustizia.
La Corte, dopo aver ricordato la propria giurisprudenza (sentenze n. 253 del 2019 e n. 306 del 1993) e l’importanza della collaborazione, che mantiene il proprio valore positivo, riconosciuto dalla legislazione premiale vigente, ha sottolineato l’incompatibilità con la Costituzione delle norme che individuano nella collaborazione stessa «l’unica possibile strada, a disposizione del condannato all’ergastolo, per accedere alla liberazione condizionale», in contrasto con la funzione rieducativa della pena, ai sensi dell’art. 27, terzo
comma, della Costituzione.
Allo stesso tempo la Corte ha posto l’accento sul carattere “apicale” della normativa sottoposta al suo giudizio nel quadro del contrasto alle organizzazioni criminali. L’equilibrio complessivo di tale normativa, secondo la Corte, verrebbe messo a rischio da un intervento meramente demolitorio, con grave pregiudizio per le esigenze di prevenzione generale e di sicurezza collettiva a fronte del «pervasivo e radicato fenomeno della criminalità mafiosa». Si tratta di scelte di politica criminale che appartengono, ad avviso della Corte, alla discrezionalità legislativa, in quanto destinate a fronteggiare la perdurante presunzione di pericolosità ma non costituzionalmente vincolate nei contenuti, e che eccedono perciò i poteri della Corte stessa.
Nel ribadire che l’intervento di modifica di questi aspetti deve essere, in prima battuta, oggetto di una più complessiva, ponderata e coordinata valutazione legislativa, la Corte ha concluso che «esigenze di collaborazione istituzionale» impongono di disporre il rinvio del giudizio e di fissare una nuova discussione delle questioni di legittimità costituzionale in esame, alla data del 10 maggio 2022, dando così al Parlamento «un congruo tempo per affrontare la materia». Con l’ordinanza n. 122 del 2022, la Corte costituzionale ha rinviato ulteriormente all’udienza pubblica dell’8 novembre 2022 restituendo gli atti al giudice a quo a seguito dell’entrata in vigore del DL 162/2022 (vedi articolo I reati ostativi. Le modifiche dell’art. 4 bis O.P.).
La giurisprudenza della Corte EDU sul divieto di sottoporre chiunque «a tortura» od a «pene o trattamenti inumani o degradanti»
La giurisprudenza della Corte costituzionale richiama ampiamente i principi già elaborati dalla Corte EDU in materia di “ergastolo ostativo”. Dalla sentenza della Grande camera 12 febbraio 2008, Kafkaris contro Cipro, fino alla recente, sentenza Viola contro Italia del 2019, la Corte di Strasburgo ha affermato che la compatibilità delle previsioni di una pena perpetua con la CEDU, ed in particolare con l’art. 3 della stessa, che fa divieto di sottoporre chiunque «a tortura» od a «pene o trattamenti inumani o degradanti», è subordinata al ricorrere di determinate e specifiche condizioni.
La Corte EDU ha chiarito che l’astratta comminatoria della pena perpetua non è un fatto in sé lesivo della dignità della persona, e quindi non costituisce un trattamento degradante (oltre che eventualmente inumano), a condizione però che siano previsti in astratto, e che risultino realisticamente applicabili in concreto, strumenti giuridici utili a interrompere la detenzione e a reimmettere i condannati meritevoli nella società. E’ dunque necessaria, a giudizio della Corte, la “riducibilità”, de iure e de facto, della pena dell’ergastolo, che può articolarsi in ulteriori corollari, a partire da quello che considera possibile imporre soglie minime di esecuzione effettiva della pena, prima di poter accedere alla scarcerazione.
In riferimento alla figura dell’ergastolo ostativo, proprio dell’ordinamento italiano, la Corte EDU ha di recente escluso la compatibilità con la Convenzione EDU della disciplina nazionale che subordina l’accesso alla liberazione condizionale da parte del condannato all’ergastolo per gli specifici delitti dell’art. 4-bis alla sola condizione della collaborazione con la giustizia. Con la sentenza Viola c. Italia, con riguardo alla preclusione alla liberazione condizionale di un condannato – non collaborante – per uno dei delitti di cui all’art. 4-bis OP, la Corte Europea ha individuato il tema centrale nel valutare se le finalità di politica criminale perseguite per mezzo della previsione della necessità della collaborazione (fuori dei casi, ovviamente, della impossibilità o inesigibilità della stessa) costituisca un sacrificio eccessivo delle prospettive di liberazione del condannato all’ergastolo e della possibilità che questi chieda il riesame della pena.
A tal proposito la Corte ha osservato che la mancanza di collaborazione non può sempre essere ricondotta ad una scelta libera e volontaria o, comunque, al fatto che siano mantenuti i legami con il gruppo criminale di appartenenza. Ed ha rilevato che non può escludersi che, nonostante la collaborazione con la giustizia, non vi sia dissociazione effettiva dall’ambiente criminale, perché la scelta di collaborare ben può essere soltanto opportunistica, compiuta in vista del conseguimento dei vantaggi che ne derivano.
Se la collaborazione viene intesa come l’unica forma possibile di manifestazione della rottura dei legami criminali – ha proseguito la Corte EDU – si trascura la considerazione di quegli elementi che fanno apprezzare l’acquisizione di progressi trattamentali del condannato all’ergastolo nel suo percorso di reinserimento sociale e si omette di valutare che la dissociazione dall’ambiente criminale ben può essere altrimenti desunta.
La presunzione assoluta di pericolosità insita nella mancanza di collaborazione è dunque d’ostacolo alla possibilità di riscatto del condannato che, qualunque cosa faccia durante la detenzione carceraria, si trova assoggettato a una pena immutabile e non passibile di controlli, privato di un giudice che possa valutare il suo percorso di risocializzazione. La conclusione della Corte di Strasburgo è stata duplice: l’ergastolo ostativo non può essere definito pena perpetua effettivamente riducibile ai sensi dell’art. 3 della Convenzione; la situazione esaminata rivela “un problema strutturale”, legato alla presunzione assoluta di pericolosità fondata sull’assenza di collaborazione, meritevole di una iniziativa riformatrice in modo che sia garantita la possibilità di un riesame della pena.
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